Risarcimento: la Corte di Appello di Bologna conferma una sentenza di condanna del Ministero della Salute per una trasfusione del 1970


Con sentenza n. 1660/2022, depositata il 22 luglio 2022 all’esito di un caso seguito dallo Studio e passata in giudicato, la Corte di Appello di Bologna ha confermato la sentenza n. 20413/2017 del Tribunale di Bologna, depositata in data 18 aprile 2017, con la quale il giudice di primo grado aveva condannato il Ministero della Salute a corrispondere ai due figli di una danneggiata, deceduta per l’aggravamento di una epatite post-trasfusionale contratta nel mese di aprile del 1970, la complessiva somma di 460.000,00 euro, oltre interessi dal 13 aprile 2017 al saldo.

L’Amministrazione aveva appellato la predetta pronuncia eccependo innanzi tutto la carenza di una propria responsabilità omissiva per il contagio.

In primo luogo perché il Tribunale avrebbe omesso di esaminare in base a quali elementi il Ministero dovesse essere ritenuto responsabile per il contagio, limitandosi ad affermare la sussistenza di un obbligo di cautela a carico dell’Amministrazione, disciplinato dall’articolo 2043 del codice civile.

Disposizione, a giudizio dell’appellante, comunque inapplicabile per l’assenza di ogni profilo di colpa del Ministero, invero all’epoca, nel lontano 1970, dalla applicazione delle cure mediche somministrate dai sanitari … non era neppure immaginabile se l’evento dannoso questione potesse verificarsi, né potendo esser contestata imprudenza o imperizia.

Secondo l’Amministrazione, per altro, per le infezioni verificatesi in quegli anni non solo non sarebbe configurabile una relazione causale tra una qualsivoglia condotta omissiva del Dicastero e la infezione, ma neppure potevano essere definiti profili di violazioni di normative mediche, questo anche perché all’epoca dei fatti, non poteva essere evidenziata la fase subclinica della malattia, tanto meno il periodo precoce dell’infezione e neppure la condizione di eventuale portatore sano del donatore, in quante i test disponibili (rilevazione delle transaminasi) potevano essere del tutto normali.

Inoltre, a giudizio del Ministero della salute nel 1970 erano già state emanate diverse prescrizioni volte alla riduzione e prevenzione dei rischi di contagio da epatite post trasfusionale, secondo le conoscenze scientifiche dell’epoca.

La Corte di Appello non ha accolto queste tesi, evidenziando al contrario come, per giurisprudenza ormai consolidata, sia configurabile una responsabilità omissiva dell’Amministrazione, anche in tempi in cui non era stato precipuamente individuata la forma C dell’epatite. In particolare, il rimando esplicito è alle sentenze delle SS.UU. della Suprema Corte le quali, sulla scorta del principio biologico-scientifico che le infezioni virali da HBV, HIV e HCV non individuavano tre diversi eventi lesivi, ma un unico fenomeno infettivo, causalmente riconducibile all’evento che, con il più probabile che non, gli avrebbe dato luogo, con la conseguenza che sono sorti, a carico del Ministero della Salute, precisi oneri di controllo già a partire dalla scoperta dell’epatite B, individuato con l’antigene Australia scoperto da Blumberg nel 1965.

Nel proprio atto di appello l’Amministrazione aveva impugnato la pronuncia di primo grado lamentando che il Tribunale non avrebbe adeguatamente valorizzato il fatto che le trasfusioni ematiche non costituiscono affatto l’unica fonte di trasmissione del virus e neppure quella prevalente, rilevando nell’esperienza, in tema di virus HCV, che più consuetamente la trasmissione avvenga per via sessuale, a causa di ferite con oggetti infetti, o per l’effetto dell’utilizzo di siringhe, trattamenti odontoiatrici etc.

Anche questo motivo non è stato accolto.

La Corte di Appello ha infatti evidenziato come la consulenza medica esperita nel giudizio di primo grado ha fornito elementi di fatto, scevri da errori metodologici o contraddizioni, tali da ritenere che, in concreto, la paziente è possibile che abbia contratto l’infezione da virus dell’epatite C attraverso le trasfusioni di sangue nell’aprile 1970, … proprio perché si trattava di sangue generalmente non sottoposto a rigorosi controlli ed anche in virtù del fatto che all’epoca il virus dell’epatite C era ancora misconosciuto.

I giudici di secondo grado rilevano inoltre come l’Amministrazione abbia sollevato, per la prima volta in appello, contestazioni circa la sussistenza del nesso causale tra trasfusioni e malattia, senza peraltro muovere alcuna censura specifica a quanto evidenziato nella pronuncia di primo grado, ovvero che dal ricovero effettuato nel 1970 non emergono segnalazioni di infezioni virali ed inoltre che nel periodo temporale 1970 – 1996, data di scoperta della malattia, non emergono elementi da cui poter dedurre, anche solo in via presuntiva, che l’infezione da epatite C possa aver avuto altre e differenti origini.

Per tutti questi motivi, nonché per il valore attribuito al verbale positivo della competente C.M.O., redatto nell’ambito del precedente procedimento amministrativo, la pronuncia di primo grado è stata confermata.

Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari