Risarcimento: per provare la consapevolezza non basta la diagnosi della patologia neppure nei politrasfusi


 

Come è noto, costituisce principio ormai consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale “il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto patologie causate da HBV, HCV o HIV per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale, che decorre, a norma dell’art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui l’evento determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche”.

Ebbene, nell’applicare tale principio a volte i giudici desumono la prova della consapevolezza dell’ingiustizia del danno dalla mera diagnosi della presenza degli anticorpi del virus nel sangue, in particolare ove tale diagnosi sia avvenuta con riferimento a un soggetto sottoposto, per la patologia di base, a periodiche trasfusioni, a maggior ragione se la predetta diagnosi sia successiva all’entrata in vigore della legge 210/92, disciplina che avrebbe “resa manifesta … la conoscenza dei rischi delle trasfusioni di sangue infetto”.

E’ evidente come questo ragionamento comporti la configurazione di una presunzione di conoscenza del nesso causale e della sua rapportabilità al comportamento illecito del Ministero ogni qualvolta ricorrano le condizioni sopra indicate, con la conseguente decorrenza della prescrizione, quasi che il danneggiato, o i genitori del minorenne, avessero l’obbligo di interrogare i medici circa i rischi delle trasfusioni.

Con sentenza n. 8645 del 3 maggio 2016 la Suprema Corte ha censurato questo ragionamento, non corrispondente “ai principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità”, non essendo invero, neppure in astratto, esigibile “una diligenza ordinaria che imponga di rivolgersi a soggetti tecnicamente qualificati o di interpellare”, nel corso delle cure, i medici e i sanitari esperti in materia sui rischi connessi alle trasfusioni, “né di percepire tale nozione, vaga e nebulosa, dalla semplice circostanza della disgraziata necessità di frequentare l’ambiente sanitario”.

Tanto meno l’approvazione di una legge come la 210/92, pacificamente seguita al riconoscimento del rischio conclamato delle trasfusioni, “rende di per ciò stesso negligente chi non si avvale degli indizi da quella forniti in ordine alla sussistenza di potenziali lesioni per gli eventi da essa disciplinati: diversamente opinando, a chiunque si dovrebbe, sol che abbia avuto la possibilità di rivolgersi ad un sanitario od anche che sia stato costretto a frequentarne continuamente e visto che la legge si presume da tutti conosciuta, rimproverare di non essersi adeguatamente documentato e di non avere diligentemente ricostruito il nesso causale tra il contagio conseguito e le trasfusioni”.

In altre parole, “non bastava … essere costretti a frequentare settimanalmente ambienti ospedalieri o centri trasfusionali, né che fosse ormai diffusa la conoscenza dei rischi delle trasfusioni, per sentirsi definire negligenti nel non avere immaginato dovuto ad una trasfusione il contagio”.

Per poter giungere alla conclusione dell’avvenuta conoscenza degli elementi che consentono l’inizio della decorrenza della prescrizione, pertanto, il giudice di merito “deve valutare analiticamente la storia clinica del leso”, avuto riguardo “soprattutto all’evoluzione o sviluppo dello specifico monitoraggio della positività ai virus HBV e HCV e dell’evoluzione delle cure somministrate per tali contagi, sì da considerare in concreto a quale fase o momento dello sviluppo della cura stessa possa (ad esempio in conseguenza della reiterazione della diagnosi con maggiori specificazioni o dell’esecuzione di ulteriori specifiche indagini cliniche o strumentali, soprattutto se rivolte all’individuazione dell’eziopatologia) ritenersi acquisito un grado di consapevolezza del nesso (o della rapportabilità) causale connotato da un’adeguata consistenza, diverso dalle generiche informazioni di cultura generale, quand’anche in certo senso assorbibili dallo specialistico ambiente necessariamente frequentato”.

In conclusione, la Corte ha annullato la sentenza di appello, rinviandola ad altra sezione della Corte di merito, statuendo che “in caso di plurime e continuative trasfusioni periodiche (nella specie, essendo il soggetto leso affetto da talassemia) fin da tenerissima età, non integra negligenza la mera, quand’anche continua, frequentazione di ambienti sanitari o medici, né sussiste un onere per il danneggiato (o, nella specie, per i genitori del contagiato minorenne) di rivolgersi a soggetti tecnicamente qualificati, per acquisire idonea consapevolezza anche della rapportabilità causale della malattia alle trasfusioni, dovendo a tal fine il giudice del merito verificare, in base alla storia clinica del leso, se e in quale momento o fase del suo sviluppo siano stati acquisiti od acquisibili elementi specifici sul punto, legati alla sua situazione personale, in base a specifici ulteriori diagnosi od accertamenti clinici cui egli sia stato sottoposto nel corso della sua vita dopo il riscontro dell’avvenuto contagio”.

  

Alberto Cappellaro e Sabrina Cestari