Risarcimento: condanna per trasfusione del ’68 confermata in appello


Con sentenza n. 1507/2015 la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza n. 5801/2012, con la quale il Tribunale di Milano aveva condannato il Ministero della salute a risarcire tre clienti dello studio, contagiati a seguito di trasfusioni subite nel 1968, nel 1983 e nel 1985/86.

I giudici di secondo grado, al termine di un procedimento che ho seguito con Sabrina Cestari, hanno evidenziato che le considerazioni svolte dal Tribunale erano conformi alla giurisprudenza della Cassazione, anche “con riferimento al momento in cui deve farsi risalire la responsabilità del Ministero per mancato controllo del sangue“.

In relazione a quest’ultimo aspetto, il Collegio ribadisce che non ha alcuna rilevanza la “data della scoperta del virus dell’epatite C, in quanto, come la Cassazione ha reiteratamente affermato in numerose sentenze, non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma un unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto – contagio infettivo – lesione dell’integrità e pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B … sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo” (così, da ultimo, Cass. 5954/14).

Secondo la Corte, inoltre, neppure rileva il fatto che, nel 1968, “non fosse ancora stato isolato il virus dell’epatite B. Infatti, dalla puntuale ricostruzione degli atti normativi e regolamentari intervenuti in materia, contenuta nella sentenza impugnata, e dai precedenti di merito e di legittimità pure richiamati dal primo giudice emerge come fin dalla fine degli anni ’60, inizi anni ’70 fossero ben noti i rischi di trasmissione di epatite virale e fosse possibile la rilevazione (indiretta) dei virus attraverso la determinazione delle transaminasi ALT e il metodo dell’anti-HbcAg e che obblighi normativi in ordine ai controlli fossero già contenuti nella legge n. 592 del 1967 e reiterati in provvedimenti successivi“.

Per parte sua, il Tribunale aveva evidenziato come “il Ministero della salute è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine … alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati, e risponde ex art. 2043 c.c., per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi”, obbligo che “deriva da una pluralità di fonti normative”,  già in vigore, nei loro tratti essenziali, nel 1968.

Il Tribunale si era inoltre chiesto se, all’epoca delle trasfusioni, il Ministero fosse consapevole della pericolosità del sangue e della sua potenziale contagiosità.

Risposta, come è noto, pacificamente positiva.

Invero, il rischio connesso all’uso del sangue “è antico quanto la necessità delle trasfusioni” (Cass. 17685/11 cit.), inoltre era “già ben noto sin dalla fine degli anni ’60  … il rischio di trasmissione di epatite virale” mediante sangue ed emoderivati.

Secondo i giudici di appello “rispetto a tale completa ed argomentata ricostruzione degli elementi da cui derivava l’obbligo di controllo del sangue da parte del Ministero, nessuna puntuale censura è riportata nell’atto di appello, che si limita a dare rilievo alla scoperta del virus, né l’appellante ha dedotto e provato che tali controlli fossero stati effettuati, mentre già a quell’epoca era nota la pericolosità del sangue infetto“.

Invero, non rispetterebbe i consolidati principi della giurisprudenza di legittimità la pronuncia che addossasse al danneggiato “l’onere di provare l’oggettiva conoscenza dei virus trasmissibili con la trasfusione al momento della medesima” (Cass. 4037/14) nonché quello “di provare la colpa del Ministero nel processo di diffusione dei virus trasmissibili con la trasfusione al momento della medesima” (Cass. 19995/13).

Al contrario, in entrambi i casi è in capo all’Amministrazione, anche in considerazione del principio della vicinanza della prova, l’onere di vincere la presunzione suddetta e di provare di aver adottato le condotte necessarie per evitare la “contagiosità” – in rapporto ad uno qualunque dei detti virus o di altri trasmissibili nello stesso modo, purché almeno noti, a prescindere dalla conoscenza di strumenti di prevenzione specifica – del sangue destinato alla trasfusione che ha provocato il danno per cui è causa” (in questi termini entrambe le sentenze della Suprema Corte sopra citate).

La pronuncia di appello, premesso che “con circolare 28 marzo 1966 n. 50, diretta ai medici provinciali, il Ministero aveva imposto l’obbligo della determinazione sistemica e periodica delle transaminasi sieriche nei donatori di sangue“, si chiede infine, “se il virus HCV era totalmente sconosciuto … come mai il Ministero aveva imposto l’analisi delle transaminasi già nel 1966?“.

L’Amministrazione lo aveva fatto, naturalmente, perché “già dagli anni ’60 era stato individuato in ambito scientifico un terzo tipo di epatite non A non B (NANB)” ed altresì perché “sin dagli anni ’60 vi era consapevolezza di un nuovo tipo di epatite, di cui si conosceva il veicolo principale (il sangue). Nonostante che essa fosse innominata (NANB) e non ancora individuata nella struttura molecolare, alcune modalità di riconoscimento della presenza del virus erano state approntate e, quindi, alcune cautele erano possibili“.

La sentenza di primo grado, pertanto, non poteva che essere confermata.

La Corte ha al contempo ribadito la legittimità dello scorporo, dal risarcimento liquidato, dell’indennizzo percepito ex lege 210/92, anche qualora l’Amministrazione non abbia provato gli importi corrisposti nel loro preciso ammontare.

Questo perché i documenti in atti, ed in particolare i provvedimenti di accoglimento delle domande di indennizzo presentate dai danneggiati, costituiscono “prova idonea delle somme percepite dagli appellati, ove si consideri il carattere predeterminato delle tabelle e la decorrenza del beneficio dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della domanda in via amministrativa“.

Alberto Cappellaro