Risarcimento: la sentenza 5801/12 del Tribunale di Milano (contagio del 1968)


 

Come ho anticipato nei giorni scorsi, con sentenza n. 5801 del 17 maggio 2012 il Tribunale di Milano ha condannato il Ministero della salute a risarcire i danni subiti da tre miei assistiti, trasfusi occasionali, a seguito di epatite contratta a causa di somministrazione di sangue infetto.

Alla data della sentenza le somme liquidate, compresi gli interessi, sono complessivamente pari a circa 1 milione e 850 mila euro: importi da cui dovranno essere detratti i ratei di indennizzo percepiti dai clienti sino a quella data, previa capitalizzazione, in modo da avere importi omogenei.

Le trasfusioni erano state eseguite nel 1968, nel 1983 e nel 1985/86.

La sentenza si segnala soprattutto per la condanna concernente una trasfusione del 1968: uno dei primi precedenti, per quanto mi risulta, in Italia, anche se anticipato dalle ultime pronunce della Cassazione ed in particolare dalla sentenza 17685/2011, cui non a caso il Tribunale fa ripetuto riferimento nella motivazione.

Il Tribunale di Milano ricorda innanzi tutto come “il Ministero della salute è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine … alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati, e risponde ex art. 2043 c.c., per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi”: un obbligo che “deriva da una pluralità di fonti normative”,  già in vigore, nei loro tratti essenziali, negli anni di esecuzione delle trasfusioni per cui è causa.

Il Tribunale cita in particolare i seguenti articoli:

a) 1 della legge 296/58, “che attribuisce al Ministero il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica, di sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche al relativo coordinamento, nonché ad emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari”;

b) 1 della legge 592/67, “che attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti la raccolta, la preparazione, la conservazione, la distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, nonché la preparazione dei suoi derivati, e per l’esercizio della relativa vigilanza”;

c) 20 della legge 592/67, “che attribuisce al Ministero il compito di proporre l’emanazione di norme relative all’organizzazione, al funzionamento dei servizi trasfusionali, alla raccolta, alla conservazione e all’impiego dei derivati, alla determinazione dei requisiti e dei controlli cui debbono essere sottoposti”).

E’ quindi incontestabile che, quanto meno dal 15 agosto 1967 (data di entrata in vigore della legge 592/67), il Ministero avesse l’obbligo di controllare che i centri trasfusionali sottoponessero il sangue utilizzato a fini terapeutici a determinati controlli, controlli che lo stesso Ministero individuava come indispensabili per eliminare o quanto meno ridurre il rischio di veicolazione di virus pericolosi per la salute dei pazienti emotrasfusi.

Il Tribunale si pone allora il problema se, all’epoca dei contagi sopra indicati, il Ministero fosse consapevole della pericolosità del sangue ed in particolare se quest’ultimo potesse veicolare virus pericolosi per la salute.

La risposta non può che essere positiva.

Come è noto, il rischio connesso all’uso del sangue “è antico quanto la necessità delle trasfusioni” (Cass. 17685/11 cit.) ed inoltre era “già ben noto sin dalla fine degli anni ’60  … il rischio di trasmissione di epatite virale” mediante sangue ed emoderivati.

Ma, soprattutto, con circolare del 28 marzo 1966 il Ministero della salute imponeva la “determinazione sistematica e periodica delle transaminasi sieriche dei donatori” ai fini della prevenzione dell’epatite virale: circolare stranamente ignorata dal Tribunale, benché ne avessi fatto esplicito riferimento nei miei atti di causa.

Tenuto conto di tutti questi elementi, dei principi stabiliti dalle sezioni unite nella sentenza n. 581/08 e che, con riferimento a tutte le trasfusioni oggetto del giudizio, nulla di quanto sopra risultava essere stato eseguito dal Ministero, il Tribunale non poteva che concludere che, “in caso di concretizzazione del rischio che la regola violata tende a prevenire”, e quindi qualora al trattamento terapeutico segua la contrazione di una patologia ad esso causalmente collegata, la colpa dell’ente può ritenersi presuntivamente provata, con conseguente diritto dei danneggiati al risarcimento dei danni subiti.

Sotto il profilo della liquidazione del danno, la sentenza si segnala per due peculiarità.

Innanzi tutto per il fatto che la quantificazione è stata effettuata con riferimento alla data di scoperta della malattia e non invece a quella del contagio: giudizio secondo me inficiato da un grave vizio logico in quanto la malattia, anche se asintomatica, non per questo non danneggia il fegato.

Analoga impostazione è stata seguita per la liquidazione degli interessi legali, che il Tribunale ha fatto decorrere dalla prima manifestazione della malattia: qui, forse, il ragionamento è più condivisibile, tenuto conto che l’interesse compensa la mancata tempestiva disponibilità del risarcimento, risarcimento che non si può pretendere prima di avere consapevolezza della patologia.

In conclusione, ribadisco che la sentenza non deve essere enfatizzata, pur costituendo un precedente fondamentale in materia.

Alberto Cappellaro

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